Giulio Zanet | Un quadro, ancora

di Marta Cereda

Giulio Zanet sta procedendo empiricamente verso l’acquisto di una maggiore consapevolezza del mondo, dopo aver riconosciuto nell’arte lo strumento per un tentativo di comprensione della realtà.
Questo testo dovrebbe essere cosparso di condizionali, di periodi ipotetici, di perifrasi che rendano tutto ciò che viene scritto sull’artista lontano da ogni pretesa di autorevolezza o assolutezza. Immagino le obiezioni di Zanet, che non vuole essere preso troppo sul serio, che si adagia nella precarietà. Ciò non significa che lui stesso non consideri con serietà la propria ricerca, ma che la stessa attitudine che lo porta a non correggere chi pronuncia il suo cognome Zànet (anziché Zanét) gli permette di guardare con calviniana leggerezza ciò che lo circonda.
Questa esplorazione del reale segue le tappe del suo percorso artistico, che da una prima riproposizione di brandelli figurativi e narrativi si sta progressivamente sciogliendo. Il passaggio verso l’aniconicità e l’astrazione, avviatosi nel 2013, è stato graduale: prima la possibilità di costruire narrazioni era resa possibile dall’emergere di figure e paesaggi, poi, quando anche questi cominciavano a sparire sotto al puro colore, dai titoli, che ancora costituivano un appiglio per la lettura delle opere. Ora anche quel punto di riferimento è scomparso e il Senza titolo non è solo un’afasia temporanea, ma anche – consapevole o meno – l’ammissione dell’autosufficienza del lavoro, che non necessita di orpelli o di didascalie, nella cui interpretazione non viene fornita una guida.
Accanto a questo progressivo disfacimento delle figure, c’è un graduale sfaldamento della solidità architettonica, un altro punto fermo del lavoro di Zanet. Quando le forme geometriche persistono, esse costituiscono un nuovo livello, un ostacolo, nella sovrapposizione di piani e di colori che caratterizza la pittura dell’artista. Inseriscono la razionalità nell’irrazionalità, costituiscono un limite, un argine al caos. Sono, però, solo apparentemente regolari, i loro confini sono imprecisi, gli angoli imperfetti.
Attraverso questo accumulo di livelli, all’interno della stessa opera, l’artista, in qualche modo, arriva alla tela successiva, in cui ricomincia, è vero, dal bianco del cotone – quando non decide di velare un lavoro già esistente – ma prosegue il tentativo di comprensione e di rappresentazione non mimetica del reale, il suo confronto con il colore e con la rinnovata responsabilità del demiurgo.
Another painting, titolo del progetto, è una sintesi del suo intero procedere, non solo un riferimento ironico al fatto che Zanet non abbia realizzato un dipinto canonico. Senza voler parlare di pittura espansa e senza citare gli ambienti, il site-specific, l’effimero: l’artista ha utilizzato Circoloquadro come se fosse la sua tela e ha inserito nuovamente la figura umana nella sua opera. Oltrepassando la tenda colorata, soglia per l’accesso all’universo estetico di Zanet, si entra nel suo quadro, si cammina sulla tela, la stessa che usualmente viene intelaiata e appesa con un chiodo alle pareti. Il rapporto tra linea e colore è sempre più morbido e non è casuale che questa scomposizione abbia avuto origine dalla riflessione su una partitura musicale*, sulla possibilità – peraltro ampiamente esplorata nella storia dell’arte – di rappresentazione cromatica del suono.
Sui muri, tracce neutre di colore delineate con una riga. Eppure tanto dritte non sono, anche se dovrebbero arginare il caos che sale da terra: queste linee, carta da parati artigianale ed economica, sono il paradosso della possibilità dell’imprecisione dalla precisione. Sono la cornice dei suoi quadri, che solitamente cornice non hanno: il loro limite è lo scotch che li tiene incollati all’intonaco e che, prima o poi, si tramuterà esso stesso in opera, così come le sbarre di legno sporche di colore, sono loro i pennelli di Zanet.
Il dittico (Senza titolo, 2016) costituisce il punto di fuga e l’origine dell’intero processo. Da un lato, infatti, i colori e le forme sulle tele sono stati riportati sul pavimento, dall’altro, invece, esso rappresenta un altro sfondamento dello spazio espositivo. In questo caso, le forme geometriche nere e azzurre che interrompono la visione e impongono all’occhio un salto sono punti fermi nel fluire dell’esistenza e costituiscono un’ulteriore soglia, simile a quella già oltrepassata scostando la tenda. Sono finestre aperte verso l’ignoto, verso un altro quadro.

*La reinveinzione del violoncello. Partiture classiche tra musica e immagine, a cura di Francesca Pergreffi, Spazio Meme, Carpi, 2015.

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