Lavoro Sporco

di Arianna Beretta

Lavoro sporco nasce ad hoc per la terza edizione di The Others che quest’anno prende una declinazione particolare, BOOM! E Lavoro spor- co, mostra che coinvolge tre artisti, Massimo Dalla Pola, Quadreria Ro- mantico Seriale e Fabrizio Segaricci è davvero esplosiva. Nei loro lavori esplodono le bombe, esplodono, o implodono, le fabbriche, esplodono i rapporti umani.

Il lavoro sporco è al centro della riflessione dei tre autori. È un lavoro sporcato dai terrorismi, dai segreti di Stato, dal non sentirsi mai colpevoli. Sporcato da una visione e una percezione distorta delle condizioni economiche e sociali di un intero Paese. E ancora sporcato da relazioni di potere per no nei rapporti tra esseri umani.

Paesaggio italiano è il lavoro di Massimo Dalla Pola che sulle tele riporta i luoghi delle stragi italiane. Da Piazza Fontana a Ustica, dalla Stazione di Bologna a Capaci, i suoi paesaggi neri e opachi ci restituiscono una realtà immobile, in attesa di quello che deve accadere. La linea racconta paesaggi e architetture e corre a descrivere, in modo freddo e razionale, una realtà che verrà presto sconvolta, ma che pare sospesa per sempre sull’orlo dell’abisso. Il fondo oro contribuisce a questa sospensione temporale, come si usava nel Medioevo, quando i personaggi delle tavole galleggiavano in uno spazio e in un tempo eterno.

Alchemical Business Resources, la serie di Quadreria Romantico Seriale, si concentra intorno ai rapporti tra esseri umani che si consumano gli uni con gli altri in un groviglio di carne, di passione e di dolore. E di “lavoro”, perché labor signi ca anche pena. Alcuni dei suoi personaggi portano sulla carne i simboli del potere, delle grandi aziende multinazionali, altri simboli ancestrali e misteriosi a indicare un contrasto tra reale e ideale, dove non c’è un carne ce e non c’è una vittima, nonostante la nostra percezione possa venire deviata dalla volontà dell’autore.

La fabbrica non parla, così intitola Fabrizio Segaricci le sue fotografie. È una presa d’atto (e un atto di amore disperato) di quanto accade oggi in Italia. Il lavoro è ormai sporco. Reso umiliante. E le fabbriche vengono abbandonate, lasciate cadere su se stesse; perfino la vegetazione, che tenta di rubare un po’ di spazio, sembra arrendersi. È un paesaggio desolato, ma che grida la sua presenza e la sua forza. Le fotografie, scattate su pellicola, sono immediate e immediatamente comunicative. Segaricci non fa la morale, ma mostra con un occhio consapevole e lucido il lavoro di oggi. Un lavoro sporco.

Intercettazione N. 1

Flavio Arensi in chat con Massimo Dalla Pola e Fabrizio Segaricci

Quindici anni fa si poteva solo intuire cosa sarebbe stata una chat con tutte le opportunità del caso. A discutere ci si trovava più volentieri negli studi, o si tirava tardi fuori dai locali, fintanto almeno che qualcuno non ci scacciava per gli schiamazzi. Chi abitava lontano era informato dai contatti comuni, o ci si raggruppava per qualche occasione speciale, poi la discussione verteva sempre sulle stesse lunghe polemiche, quelle che i ventenni affrontano un po’ per capire, un po’ perché Il cielo sopra Berlino lo si deve aver visto almeno tre volte. Alla fine, però, era la fantozziana «ventilatio intestinalis putrens» a dare senso a quegli incontri, siccome – l’ho imparato col tempo – viene fin troppo facile fare gli intellettuali tristi mentre diventa arduo guardare con ironia il mondo, e in quella ironia talvolta scherzare con amarezza sui drammi che ci fanno tanto piccini quando capitano o quando li osserviamo. Prima di iniziare la chiacchierata con Massimo Dalla Pola e Fabrizio Segaricci (voglio riportare la conversazione come è avvenuta in forma di chat), entrambi alla postazione domestica, uno a pochi km da me l’altro a qualche centinaio, stavo guardando la ritrasmissione del racconto del Vajont di Marco Paolini. La parte più dura è quando si colpisce con la mano la spalla: «via i vestiti»… ma è forse ancora più soffocante quando tenta di far ridere per sottolineare la tragedia.

Flavio: Anni fa ci passai perché avevo una mostra a Longarone, io e il mio accompagnatore siamo saliti fin sulla diga per vederla. Quando sei là non puoi che avere i brividi e forse la ragione è per quello che sai che è accaduto, altrimenti non proveresti nulla. Non siamo condizionati anche davanti a un’opera d’arte?

Fabrizio: Sì, credo di sì. Il nostro vissuto influenza senza dubbio le nostre scelte, ma anche i nostri comportamenti, le nostre reazioni, la nostra rabbia o la tranquillità con cui rispondiamo a quello che ci accade.

FL: Se noi non avessimo la stessa conoscenza delle storie che sottendono ai tuoi lavori, Massimo, se i titoli non richiamassero i “nomi delle stragi”, i toponimi di quei drammi, li capiremmo ugualmente? O se non sapessimo che i capannoni vuoti di Fabrizio sono al centro della cronaca di tutti i giorni, coi ben noti licenziamenti e la crisi, riuscirebbero a comunicare?

Massimo: No, ma quelle sono icone della nostra storia, sono momenti che hanno segnato il nostro vivere e gli esiti disastrosi della democrazia italiana.

FA: A me piace pensare o sperare che le immagini che incontro possano dare un’idea anche soggettiva da parte dell’osservatore e non necessariamente il mio punto di vista, poi a volte le due cose possono trovare un punto in comune o nuove visioni.

FL: Per un liceale non signi ca nulla quello che sta dietro le vostre immagini, il loro problema è il giubbotto firmato, la minicar…che ne sanno di piazza Fontana o degli esodati?

M: A me sinceramente dell’arte in sé, di quella che si parla addosso, di quelli che citano i Maestri o che realizzano prodotti gradevoli, buoni a far pendant con Poltrona Frau non me ne fotte un cazzo, così come non frega ai liceali. Piazza Fontana la conoscono sicuramente più di Raffaello, forse meno che Leonardo, ma il livello di comprensione della realtà non può essere settorializzato (arte, storia, moda, musica). Chi è interessato a qualcosa l’approfondisce, se non c’è una passione profonda per la conoscenza, questa si manifesterà in tutti gli ambiti dell’esistenza.

FA: Non spetta certo all’arte segnare la strada, talvolta però può dare lo spunto per una ri essione o per svolgere un approfondimento.

FL: Fabrizio, se tu togliessi all’arte il valore di indagine sociale, non dico denuncia, il tuo lavoro cosa sarebbe? Tu sei la dimostrazione che l’arte è un messaggio e per te la priorità è sociale, no?

FA: Io cerco di parlare e in qualche maniera raccontare il mio tempo attraverso immagini che conosco, non posso logorarmi immaginando che qualcuno non afferri il messaggio, potrei raccontargli trent’anni di fabbrica, ma cambierebbe qualcosa?

FL: L’Italia che ne esce è un disastro, ma tutto sembra ripetersi come nulla cambiasse, tutto resta immobile.

FA: Io non vedo vie di fuga da una situazione così drammatica.


M: Posso capire la frustrazione del cittadino medio, che magari non ha strumenti conoscitivi approfonditi rispetto alla realtà, ma non giustifico il prostrarsi del ceto intellettuale di fronte a logiche assolutamente autodistruttive. È un cupio dissolvi degli artisti che ormai, sembra, non appartengono più alla intellighenzia, ma si limitano a leccare il culo e a lavorare autisticamente come se la realtà non esistesse.

FL: Tutti tengono famiglia, questa è la scusa che giusti ca ogni nefandezza. Pensi basti mettere in rilievo un problema o si dovrebbe scendere in piazza, perché io non riesco… forse è anche comodo protestare così, o indicare un problema, alla ne che soluzione può dare un intellettuale o un artista? O uno come me che tira a campare organizzando mostre? Io non ho la pretesa di dare indicazioni, posso solo offrire una lettura delle circostanze, degli eventi.

M: Da un artista posso anche aspettarmi il bisogno di denaro, non comprendo la volontà di non contemplare nel proprio lavoro riferimenti che non siano puramente estetici. Del bello ne a se stesso mi sono stufato. Diciamoci la verità, il bello in sé non esiste, la storia che la bellezza salverà il mondo è una stupidaggine di dimensioni sesquipedali. È l’intelligenza, eventualmente, che ci può dare una mano.

FA: Forse l’unico gesto che ha ancora valore per un artista potrebbe essere quello di documentare il proprio tempo. In fondo ci è stata raccontata una società completamente irreale. Mi resta tuttavia un dubbio: il nostro tempo cos’è?

M: Non so se andare in piazza sia un po’ fuori moda, io so che Manet ha partecipato alla Comune di Parigi, mentre Picasso faceva Guernica in Francia.

FL: E noi che stiamo facendo? Guernica o la Comune?

M: Noi purtroppo non abbiamo guide, per cui gridiamo inutilmente. Non c’è un’idea unificante, un’alternativa valida al capitalismo
.

FL: Per gridare bisogna avere qualcuno che ascolti, a me pare che ci manchi anche un uditorio che voglia e possa ascoltare.

M: Basta uno solo che ascolta e poi se non c’è nessuno che parla non c’è nessuno che ascolta.

FL: Sono balle che basta che uno solo ci ascolti e abbiamo guadagnato il bersaglio. Conta chi ha un uditorio vasto in questa società, conta la popolarità.

FA: Non riesco a stare in silenzio, è più forte di me e sono convinto ci sia sempre qualcuno che ascolti.

FL: Allora, dopo 10.000 anni dai graffiti rupestri, la bellezza non conta più, posso essere d’accordo; i fotoreportage raccontano tutto, la tecnologia ci inonda di immagini, messaggi, di falsi valori, non solo etici ma anche economici. E voi parlate, ma che senso ha?

FA: Credo che Massimo, come me, si riferisca a una bellezza estetica ricercata e ostentata, autoreferenziale.
M: La bellezza conta solo quando è storicizzata, cercarla nel contem- poraneo è inutile. Nel Rinascimento si raf guravano le battaglie, le guerre, episodi di inaudita violenza e solo oggi le consideriamo belle.

FL: In fondo voi lavorate sulla memoria, come nel Rinascimento, era la memoria di un evento, un allarme per non dimenticare, pensate sia lo stesso? State accendendo un allarme?

M: Considerando che i processi di quasi tutte le stragi sono ancora oggi aperti, direi che lavoro, comunque, sull’oggi, ossia sulle ripercussioni che ancora oggi quei fatti di sangue hanno sul ricordo, sono ancora ferite aperte che in qualche modo hanno plasmato la nostra vita e, personalmente, indurito la mia posizione rispetto alle nefandezze delle autorità. I luoghi che racconto sono come dei monumenti installativi, una sorta di epicentri del dolore.

FA: La memoria come riflessione, come confronto, non come rimpianto, come riferimento.

FL: Strano che drammi anche lontani temporalmente dalla nostra quotidianità ci tocchino ancora. Ricordo i giorni di Capaci per esempio, e mi sembrava tutto di una densità impronunciabile, come se stessi vivendo un tempo lattiginoso. Poi ricordo i gazzettini padani alla radio, da bambino, e gli speaker che parlavano di gente uccisa dai brigatisti e ne avevo paura benché non sapessi neppure gurarli.

M: Quei momenti sono stati dei sintomi, i segnali di una malattia che covava e che puntualmente si è manifestata nella fragilità di uno Stato che non è uno Stato.

FL: Ma voi avete speranza?


FA: Assolutamente sì.

M: Come diceva un mio collega di battute, “se la speranza è l’ultima a morire comunque vuol dire che alla fine muore”. Io di speranza non ne ho mai avuta, a dir la verità, sono cresciuto con Kierkegaard, con Bernhard e lì di vie d’uscita non ce ne sono.

FL: Ho messo al mondo una figlia, forse dovrei averne.
 Forse se ne dovrebbe avere, come il finale del Faust. Basta scegliere il Faust giusto, però.

INTERCETTAZIONE N. 2

Arianna Beretta in chat con Quadreria Romantico Seriale

Arianna: La tua serie Alchemical Business Resources mostra uomini e donne, velati, mascherati o seminascosti da cappelli – a nascondere qualsiasi connotazione personale e di identità – che portano su di sé simboli in alcuni casi del potere economico in altri invece simboli che si rifanno all’antichità, che sembrano consumarsi a vicenda. Qual è l’idea portante di questi lavori?

Quadreria Romantico Seriale: Sono lavori nichilisti, dove c’è consunzione e piacere. Del resto il lavoro è “tormento”, e in latino il termine labor significa pena, punizione, lavoro inferiore. Infatti lavorava lo schiavo, diciamo il bottino umano di guerra, non il membro libero e degno di una comunità. Ma labor può essere anche sacrificio, devozione, desiderio.

A: Sì, il rapporto fisico, sessuale, si coglie e ha un impatto forte su chi guarda, creando forse anche disagio o imbarazzo. La tavola New York Stock Exchange in realtà suggerisce che qualcosa di oscuro e tremendo sia accaduto; mi chiedevo quindi se questi rapporti fossero regolati da dinamiche particolari, se esiste un carnefice e una vittima.

QRS: Nel mio lavoro tento sempre di esprimere un rapporto di tensione: ritengo sia l’elemento essenziale di ogni realizzazione. In New York Stock Exchange esiste un rapporto tra involucri, tra due tipi di carcassa. I corpi stessi, che la modernità insegna a tenere in salute attraverso l’ansia, sono protesi di mercato. Tuttavia il carnefice è sempre un’emanazione della vittima, non il contrario.

A: È chiaro. Anche se quei simboli mi rimandano – forse per le notizie che mi passano davanti agli occhi quotidianamente – ad un rapporto di prevaricazione, dove uno è più potente – non per spirito o qualità – ma semplicemente per basse dinamiche di potere. Quanto pesano questi simboli?

QRS: Oggi non abbiamo più una gerarchia nel senso esatto del termine. Ogni forma di sacro si è dissolta in semplice esteriorità. Dunque si preferisce parlare di ruoli, mansioni, livelli, titoli o di altre simili vacuità per de nire e imporre delle regole sociali: tutto è così più gestibile, asettico e, ovviamente, democratico. I simboli hanno smarrito la loro natura ancestrale e identitaria. Sono stati soppiantati dai marchi e dai principi Unesco. Le immagini cui ti riferisci le realizzo a partire da questo nulla.

A: C’è quindi una incomunicabilità di fondo. La intendi universale? Ossia valevole per tutti i rapporti umani?

QRS: I miei soggetti sono impersonali, partecipano ad una funzione. Sono estranei alla quotidianità. Non mi prefiggo che essi comunichino qualcosa: cerco solo che abbiano forza, che s’impongano per se stessi. C’è già troppa comunicazione per non esprimere nulla, o per dare spazio alle oscenità del quotidiano. Anche il vissuto si è ammorbato di “rapporti umani”. Mancano invece rapporti di carattere e di sangue.

A: I tuoi lavori sono densi di simboli, rimandi colti, citazioni, non ti infastidisce se chi guarda non riesce a cogliere appieno il loro signi cato?

QRS: Sono un fanatico. O mi piace l’idea di esserlo, perché forse non ne ho la purezza necessaria. Non faccio altro che procedere lungo un percorso che ho liberamente scelto, nonostante quello che mi circonda. Non essere compreso da coloro che sento affini lo ritengo un mio errore. Mentre non esserlo da chi fa propri concetti quali quelli di “modernità”, “progresso” o di “civiltà” lo ritengo un merito. Ecco, sì, rispetto a questa tipologia di persona sono estraneo: è quindi naturale che non ci sia reciproca comprensione.

A: Espressione, serialità, simbolo, queste sono le tue parole chiave. Cosa significa dunque per te fare arte? Immagino, da quanto mi hai finora detto, tu sia lontano anni luce dall’essere mosso da una motivazione che possa lisciare il tuo ego. Mi sbaglio?

QRS: Fare arte, dal mio punto vista, significa indossare una maschera, de nire un rango, seguire una regola, realizzare una volontà. Il senso ultimo di queste azioni è al di là delle azioni stesse e di ciò che esse realizzano. Sono lontano da ogni idea di autorialità con le sue manfrine individualiste da ego anabolizzato. Non sono un “autore”, non voglio esserlo. Queste sono piccolezze borghesi. Ho invece l’ambizione di essere strumento di un discorso originario. Le opere della Quadreria Romantico Seriale non sono altro che tracce di questo cammino.

A: Per questo progetto abbiamo utilizzato il titolo “Lavoro sporco”, a indicare quanto ormai questo termine si sia macchiato di disvalori e quanto possa portare l’uomo a un livello di disumanità impensata. Pensi che questo concetto possa essere applicato anche per il lavoro dell’artista e dell’arte?

QRS: Non credo all’idea di umanità. Credo al carattere, allo stile, all’idea di razza come radice. I cosiddetti valori umani sono qualcosa verso cui nutro profondi sospetti. In passato con il termine artista si sanciva una diversità, un demone. Ora, di norma, si individua invece una mansione con certi standard produttivi, organica all’industria culturale. L’artista, con i suoi curriculum e le sue “esperienze all’estero”, è divenuto insomma una “human resource”, un essere civico e mondano. Certo, a volte dispettoso, a volte giullaresco, a volte erudito, a volte ribelle, ma sempre, essenzialmente, un decoratore di questa giostra anemica. Sì, è davvero un lavoro sporco quello dell’artista.

A: Stai dicendo che l’arte oggi non ha più nessun valore culturale? Che si è impoverita tanto da non riuscire più a smuovere passioni, a stimolare l’intelletto, insomma ad essere, anche se il termine non mi piace, un modello?

QRS: Alla cultura oggi imperante non attribuisco alcun valore. Sono stati azzerati culti, rituali e tradizioni con tutto il loro portato simbolico. Dunque l’oggetto d’arte in sé non può che essere proposto come “merchandising”. L’opera si è trasformata in colta bigiotteria, con un suo valore economico, ma senza rappresentare un’autentica preziosità. Per queste ragioni individuo l’arte più nelle azioni che superano le opere stesse. Un’autentica realizzazione artistica porta in sé la sua stessa estinzione. E le passioni, se profonde, mettono in campo sangue e istinto. Mentre l’intelletto è in sostanza un orpello. La sfida, ora, si pone sul limite più estremo.