Intervista a Giulia Berra

di Barbara Mariani

La tua biografia in quattro righe?
Sono nata nel 1985 a Cremona, ma non mi riconosco come cremonese, perché la mia è una piccola cittadina di provincia e io – al seguito di mio padre che studiava gli insetti – sin da piccolissima ho viaggiato tanto per l’Europa e per i paesi mediterranei. Ho fatto studi classici, ma avevo le idee chiare: volevo frequentare l’Accademia di Belle Arti. Così mi sono trasferita a Milano per poter andare all’Accademia di Brera, dove ho studiato pittura per 5 anni.

Come hai iniziato il tuo percorso artistico?
È iniziato verso i 12 anni quando mio padre per la festa di S. Lucia mi regalò una scatola di colori a olio e io iniziai a dipingere. Successivamente durante gli studi classici continuai a dipingere riproducendo fotografie, soprattutto di animali. Terminato il percorso di studio, decisi di iscrivermi all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e coronare così il mio sogno. Inizialmente si trattava di esperimenti influenzati soprattutto dalla pittura gestuale: erano tele informali ad acrilico di piccolo formato. Nel 2009 ho cominciato a dedicarmi alle installazioni dopo una lunga ricerca personale e un’analisi interiore, rielaborando anche una serie di esperienze di momenti difficili.

Dove crei le tue opere? Qual è la scintilla?
Le mie opere hanno diverse genesi: a volte sono oggetti – semi o strutture particolari – che mi colpiscono per la loro forma e mi portano a sviluppare poi un lavoro. Altre volte si tratta di forti emozioni. Ora, ad esempio, sto ultimando due installazioni inspirate alle lotte per il pane che ci sono state in Nord Africa. È un insieme di concatenazioni di eventi particolarmente drammatici. In questo caso la scintilla è stata offerta da eventi esterni che mi hanno colpito e che ho poi rielaborato. In genere si tratta di una coincidenza: a una notizia particolarmente forte si associano delle immagini o delle letture che ho fatto precedentemente. Per il lavoro sul pane nella mia mente si sono associate le immagini delle cavallette. In quel periodo stavo leggendo un libro su questi insetti che possono essere sia un flagello biblico, sia una riserva proteica nell’Africa Centrale. Così ho associato le cavallette ai beni di consumo.

Che tipo d’artista ti definiresti?
Domanda difficile… Un’artista in divenire.
Non mi è facile definirmi, perché ritengo di avere ancora molte strade da esplorare. Cerco comunque di dare una mia interpretazione del mondo e rappresentare l’uomo e i suoi rapporti con il contesto che lo circonda, dando sempre un senso positivo. Ci si trova di fronte a diverse domande, per le quali occorre trovare delle risposte. In realtà nessuna strada è mai stata battuta completamente e ci sono sempre più vie da percorrere.

Che cos’è l’arte per te?
Credo che sia una delle tante modalità attraverso le quali si esplica il pensiero della comunicazione umana; in definitiva è un processo di analisi di certe situazioni e pensieri individuali e collettivi trasformati in immagini. Le immagini o le rappresentazioni tridimensionali – ancor di più della parola scritta – si prestano a diventare simboli e quindi a racchiudere in sé più significati e più interpretazioni. Penso che negli ultimi anni all’arte sia stato chiesto di svolgere quel compito che una volta era appannaggio della filosofia.

Che cosa vuoi comunicare con le farfalle? Cosa rappresentano?
Sono figlia di un entomologo, leggo libri di etologia e mi documento sul comportamento degli animali, sulle loro implicazioni simboliche e sulle relazioni e le analogie con l’uomo. Pensando alle farfalle la prima analogia che mi viene in mente è quella della psiche umana. Psiche in greco antico significa sia farfalla, sia anima. Nella favola di “Amore e Psiche” e nelle successive rappresentazioni Eros è spesso associato alle ali di farfalla. Inoltre sono un tributo simbolico molto presente negli “Angioletti” del Mantegna a Mantova.

Qual è per te la prova del nove per capire se un’idea è buona?
Bella domanda… Ho sempre con me un taccuino dove rielaboro schizzi, disegni e pensieri. Poi passo a una fase di sperimentazione pratica che in genere si conclude con l’opera vera e propria. Il momento critico non è tanto la creazione dell’opera, quanto la sua valutazione, per rendersi conto del suo valore. Infatti ogni lavoro ha per l’artista una forte componente affettiva. Il problema è capirne la portata; nel mio caso, poiché non ho uno studio, è fondamentale immaginare la mia creazione in relazione a un contesto ambientale.

Che artisti ammiri e in che modo hanno influenzato le tue opere?
Lucio Fontana che considero un genio assoluto, Fausto Melotti con le sue sculture leggerissime fatte di rapporti armonici (importanti per le mie ricerche), Giuseppe Penone e tutta l’Arte Povera, e l’artista tedesca Christiane Lohr.

Ti dispiace staccarti da una tua opera quando viene venduta?
C’è un po’ di ritrosia nel pensare di mettere in vendita una parte di me. Forse è anche la paura di confrontarmi… l’idea di associare la mia opera a un valore, una stima, un riconoscimento.

Secondo te si compra l’opera o si compra l’artista?
Dipende dallo spirito con il quale si effettua l’acquisto. Un artista spera sempre che venga comprata la sua opera se pensa d’avere un pensiero da trasmettere. Se invece pensa di valere particolarmente come persona spera che comprino la sua firma. Io vorrei che le mie opere vengano acquistate come forme di pensiero, non perché hanno la mia firma. Lavoro per creare qualcosa e non voglio essere creata dal lavoro che faccio.

Cosa mi puoi dire della tua opera sulle farfalle esposta a Circoloquadro?
Si tratta di una serie di disegni a bic nero su carta giapponese, copiati da farfalle realmente esistenti. Ho realizzato i disegni tenendo le farfalle a pochi centimetri da me. I colori degli insetti sono restituiti attraverso il ricamo; si tratta se vogliamo di una figura retorica tradotta in immagini. Come sottolineo ironicamente nel titolo “Made of Silk”, ossia fatto di seta: in effetti sono farfalle realizzate con filato di farfalla… Sono disposte come se stessero volando direttamente sul muro. Personalmente ho un’avversione per le cornici, le impalcature in generale, i piedistalli. Le mie opere vanno sempre guardate da pochi centimetri. Non devono arredare, ma essere guardate da vicino.

Qual è il lavoro che più ti piace?
Mio?

Si…
Quello che verrà…

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