Fabrizio Segaricci | Tutto su mio padre

di Arianna Beretta

Ci sono due livelli di lettura nel mio lavoro. Da lontano vedi delle bande bianche e nere che scendono, non capisci, sei disorientato. Ti devi avvicinare, devi compiere un movimento verso l’opera: guardi la nostra storia, ci entri dentro. C’è una seconda dimensione che ti obbliga ad andare oltre. […] Mi interessa molto sapere cosa arriva alle persone del mio lavoro. Non importa quello che ho pensato io perché vuol dire che il lavoro dice altre cose a chi lo guarda.
Specchia, 16 luglio 2018, conversazione con Fabrizio Segaricci

Seregno, 16 luglio 1976, ore 18. Mio padre entra in cortile con il suo Garelli arancione, scende la rampa e frena davanti al solito gruppo di bambini che tutti i pomeriggi si trovano “giù” a giocare. È uno dei momenti più belli della mia giornata perché so che lui mi farà salire sul motorino. Davanti, in piedi, con le mani sulle sue mani a tenere il manubrio e guidare. Subito siamo di nuovo fuori a fare il giro dell’isolato. Mi piace, mi sembra di andare velocissima, con l’aria contro la faccia, ma sono sicura e tranquilla perché di lui mi posso fidare. Stanco per la giornata di lavoro e con indosso ancora il tòni e l’odore di fabbrica che ricordo bene, mio padre mi regala questi attimi di gioia pura. Poi rientriamo in cortile con il brivido della discesa e la frenata – che mi sembra ardita –  davanti al box.

È questo il primo ricordo che il lavoro di Fabrizio Segaricci mi ha raccontato. Sono entrata nelle storie narrate nei suoi lightbox e ho riconosciuto mio padre, e con lui gran parte degli uomini della mia famiglia, negli uomini che entrano nelle fabbriche italiane di quegli anni. Certamente troppo piccola per ricordare altro, se non questo aspetto così intimo che credevo perso del tutto, oggi il lavoro di Fabrizio mi riporta con forza al passato.

“Ci siamo solo persi di vista”, non può essere che questo il titolo per questa mostra. Chi o cosa si è perso di vista? Abbiamo forse perso di vista la nostra storia? Le nostre relazioni? I nostri affetti?

Fabrizio Segaricci non intende dare una risposta, anzi sollecita la nostra riflessione facendo leva su immagini del passato che parlano a ciascuno di noi.

Le vecchie pellicole 16 mm, datate per lo più 1968, che Segaricci ha recuperato da un passato che sembra dimenticato dai più, erano in realtà documentari sui movimenti operai e sugli scioperi – soprattutto in città come Torino, Milano e Taranto – in cui un intero Paese chiedeva condizioni migliori per il lavoro: sicurezza, orari e salari adeguati e soprattutto rispetto per le persone e il ruolo, attivo e fondamentale per la sua crescita, non solo economica, dell’Italia.

Segaricci isola, decontestualizzandole, le storie contenute in questi filmati e compie una operazione di capovolgimento: toglie l’audio e mostra le pellicole nei singoli fotogrammi. L’audio che accompagnava questi documentari era una imbarazzante propaganda politica, mentre le immagini ti restituiscono la dimensione reale dei fatti perché sono senza tempo. In questo modo guardi il passato, come se fosse raccontato dai vecchi – che sono preziose scuole di vita – e allo stesso tempo non puoi non riflettere sul presente e sul futuro, mi racconta Fabrizio durante la nostra conversazione estiva in Puglia.

Mi chiedo quale presente e quale futuro? Il mio, il suo, quello del nostro Paese?

Credo che la forza di Fabrizio Segaricci sia questo mescolare pubblico e privato – la dimensione intima e quella politica, nel senso originario e più alto del termine. Mi ricorda in questo, un grande artista del passato, Tino Vaglieri, quando scriveva dei propri disegni politici, risalenti esattamente agli stessi anni di queste pellicole: “Il disegno politico e no è, per me, contaminazione continua di maiuscolo e minuscolo, di pubblico e di privato (di me e degli altri). Naturalmente un disegno cosiffatto, che pure ha una buona componente sociale e a volte di vero e proprio momento politico non è facilmente strumentalizzabile. In qualche modo si rifiuta di essere mangiato e cagato in un batter d’occhio. È pesante, bisogna seguirlo dentro, ha uno spessore: io ci metto dentro fatti miei, umori miei, malumori miei soggettivi (che sono anche oggettivi se riesco a dargli una forma), e poi i fatti che tutti sappiamo, che leggiamo. Il mio lavoro è di far diventare questa quantità di cose una situazione. Allora vuol dire che ho fatto diventare omogenee e generali delle grandezze diverse. Forse il senso più vero del mio lavoro sta appunto in questa ricerca e affermazione di una sostanziale omogeneità, stretta correlazione tra il privato, l’esistenziale e il momento sociale. L’arco che intendo coprire è ampio. È questo arco che intendo per «spessore»”.

L’intero lavoro dell’artista umbro va proprio in questa direzione. Ciò che è accaduto, che accade e che accadrà non è mai solo privato o pubblico perché ognuno di noi partecipa alla vita sociale e politica del nostro presente. Ed è per questo che Fabrizio Segaricci riesce a parlare a diverse generazioni.

Le storie che scorriamo nei suoi grandi lightbox a me raccontano l’infanzia, ricordano un padre operaio di cui non sapevo quasi nulla (scioperava? era attivo politicamente?) ma che rappresenta la mia identità e le mie radici: io arrivo da lì, dal quel mondo a cui appartengo. Alla generazione precedente la mia, forse queste storie possono far rabbia: quanti sforzi, quante lotte sono state fatte e dove siamo arrivati? Sono convinta che i ragazzi di oggi possano guardare queste pellicole ed essere stimolati con forza: certo, è un mondo e un’epoca per loro totalmente sconosciuta, ma come non possono pensare alle lotte e agli scioperi dei lavoratori delle nostre campagne meridionali, che solo questa estate sfilavano chiedendo i più basilari diritti? Non sono più italiani, sono stranieri, certo, ma come mi trovavo a scrivere per un lavoro inedito di Segaricci dal titolo Domenica è sempre domenica – serie di scatti fotografici che ritraevano famiglie straniere intente a fare i picnic domenicali sulle riva del Lago Trasimeno, […] personalmente non posso fare a meno di paragonare questi nuovi italiani a quelli di cinquant’anni fa. Come loro, dai lavori operai e pesanti, come loro tesi a costruire un futuro migliore per i figli, che infatti poi andranno poi all’università, e come loro, orgogliosi del loro status e dei soldi guadagnati duramente. Si ritrova negli scatti di Segaricci lo stesso clima, la stessa atmosfera, le stesse facce e le stesse espressioni.

Ci siamo solo persi di vista parla di memoria e di identità, ma senza nostalgia, senza affermare che “era meglio prima”, perché Fabrizio Segaricci non vuole affermare nulla né dare risposte univoche e definitive, ma – come l’arte deve fare – si avvicina alle persone, alle storie, ai luoghi e pone delle domande. Sta a noi raccoglierle, provare a darci delle risposte e a ritrovarci senza mai più perderci di vista.

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