Massimo Dalla Pola | Fondamenta

di Marta Cereda

Riflettendo a posteriori su tutti i miei viaggi, su questi paesaggi urbani, questo andar per luoghi, mi sembra che una condizione costante sia stata l’attesa di ritrovare corrispondenze ed analogie. La disposizione emotiva che guidava, oggi lo so bene, i miei spostamenti e la mia curiosità mi portava e mi porta a eliminare le barriere geografiche: questo non significa che tutte le città debbano fortemente assomigliarsi, ma significa che in tutte le città ci sono presenze, più o meno visibili, che si manifestano per chi le vuole vedere, presenze famigliari che consentono di affrontare lo smarrimento di fronte al nuovo.

Gabriele Basilico, Nelle altre città, 1997

Non comprendere una sola parola di ciò che viene detto intorno a te favorisce la concentrazione, soprattutto se ci si trova in un museo affollato, in cui il brusio incessante rischia di compromettere il godimento estetico/estatico. Vagando in questa condizione per le sale del Moderna Museet di Stoccolma, che dal febbraio 2011 per un anno intero ha dedicato le proprie pareti esclusivamente alla fotografia, la visione delle immagini scattate dai coniugi Becher mi ha immediata- mente fatto pensare ai lavori a bianchetto di Massimo Dalla Pola. La sequenza di rappresentazioni in bianco e nero, volutamente ripetitive senza essere ridondanti, l’esplicito intento catalogativo, la linearità delle composizioni dell’artista milanese, infatti, sono presupposti della scuola di Düsseldorf. Dalla Pola condivide con i fondatori della fotografia concettuale l’oggettivazione estrema del soggetto ritratto, che viene privato di ogni connotazione, quasi a impedirne il riconoscimento, giacché non conta il singolo, bensì l’insieme. Neppure il riferimento al mezzo fotografico è una novità per Massimo Dalla Pola, che in Zibaldone e in No face houses aveva declinato l’architettura di case prive di porte e finestre e vedute cittadine attraverso questa tecnica, mentre non si può non sottolineare come anche i la- vori a bianchetto siano l’espressione di una riflessione che ha nella fotografia un passaggio intermedio e nella resa su carta da lucido il risultato.

Emerge, dunque, un approccio enciclopedico, una volontà di repertoriare, un intento scientifico cui si associa la consapevolezza dell’impossibilità di concludere la serie, che, quindi, è priva di scientificità nelle premesse, seppure il campione raccolto dall’artista divenga l’oggetto di un’analisi. Del metodo scientifico Dalla Pola condivide un’assoluta imparzialità: vi è una presentazione priva di qualunque coinvolgimento emotivo, resa possibile anche dalla tecnica usata, cui si aggiunge una sottile ironia che caratterizza lo sguardo sul reale dell’artista. Se nelle serie The fifties e The middle ages essa è resa evidente solo dal tratto bianco incerto, nel ciclo The second world sull’architettura sovietica viene esplicitata in modo più appariscente attraverso la cornice rossa, che non è orpello, bensì elemento costitutivo dell’opera stessa, consentendo all’artista di riferirsi a un’ideologia e a una tradizione ben definita. Grazie alle cornici identiche, all’assenza di colore, al raggruppamento, le diversità formali architettoniche passano in secondo piano e i vari edifici riuniti per tipologia vanno a costituire una topografia estetica del paesaggio urbano e residenziale. Le costruzioni, avulse dal contesto, acquistano un valore iconico; occupano il centro della scena, spesso con un’inquadratura frontale, sono l’unico elemento su cui focalizzare l’attenzione. Divengono l’espressione di un fare umano, che è il fulcro della riflessione di Massimo Dalla Pola: prescindendo dalla rappresentazione dell’uomo, l’artista ne indaga il pensiero attraverso le forme architettoniche. Non a caso, infatti, le serie dei lavori a bianchetto esaminano tre epoche, diversamente concentrate dal punto di vista storico e temporale, durante le quali le tracce architettoniche si sono rese manifestazione tridimensionale del pensiero umano. Il medioevo, la Milano degli anni Cinquanta, il blocco Sovietico dagli anni ’20 agli ’80 hanno prodotto edifici nelle cui linee l’artista ritrova la sensibilità del periodo, gli ideali comuni. La distanza storica non è rilevante, nel momento in cui l’architettura viene intesa come immagine archetipica, che mantiene e amplifica nella semplificazione del tratto bianco il proprio valore identitario.

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