Fabrizio Segaricci | Il nonluogo delle nuove possibilità

di Flavio Arensi

Quando Marc Augè utilizzò per la prima volta il neologismo nonluogo, in contrapposizione ai luoghi antropologici, non credo comprendesse appieno quanto questo concetto potesse allargarsi e penetrare nell’uso quotidiano della lingua (e della vita), siglando spazi che forse originariamente non erano prevedibili. Il nuovo lavoro di Fabrizio Segaricci per Circoloquadro, Dormi, ché domani arriva presto, muove ver- so due punti cardinali che oscillano proprio fra coscienza del luogo e trasformazione del nonluogo. Due progetti differenti ma che sono le facce della stessa medaglia perché alla ne al centro c’è sempre l’uomo. Così, le spiagge cannibalizzate dai turisti della Versilia perdono l’identità che invece ritrova un posto della memoria, dell’infanzia, e tutto si mantiene ancora una volta su un equilibrio precario tra il senso di un luogo e il suo contrario.

I nuovi lavori presentati a Circoloquadro fanno parte di un unico progetto Dormi, ché domani arriva presto con un forte sapore di ricerca identitaria, di che si tratta esattamente?

«Benché due opere differenti, sono legate da una matrice comune che è in definitiva il rapporto con il luogo e il suo attraversamento. Per Mi hanno mandato una volta in colonia e mi sono perso sono partito da un video che ho girato nella spiaggia di Carrara: mi interessava capire come le persone e il loro andirivieni sul lungomare abbiano potuto modificare il paesaggio. Sono nato in casa, invece, ha una costruzione più intima, autobiografica, poiché sono io stesso a “rivive- re” un luogo familiare documentando la mia esperienza, che non è solo il mio rapporto col luogo, ma anche come la memoria di questo ricordo si è addensata nel corso della vita.»

Il suo linguaggio mette spesso in luce un’Italia che mi pare molto lontana nel tempo, o perlomeno dal tempo presente…

«Credo sia lontano il nostro sguardo verso le cose quotidiane. Forse non siamo più abituati a guardare ciò che ci circonda in maniera semplice, abbiamo bisogno continuamente di emozioni forti che ci arrivano un po’ da ovunque, dalla televisione a internet no alla più banale cartellonistica di strada. Io rimpiango molto quando si giocava a nascondino nella piazzetta del paese.»

Quale fra questi ingredienti è fondamentale: memoria o rimpianto?

«La memoria è uno degli elementi ricorrenti nel mio lavoro. Seppur resta doveroso guardare avanti è altrettanto necessario non dimenticare cosa siamo stati e chi. Spesso utilizzo una sorta di memoria “condivisa” di eventi storici, come la Resistenza, o individuali scaturita dai racconti delle persone che incontro, trovo sia una necessità per confrontarci.»

Nel video di Carrara c’è la memoria di un momento fugace, la persona che passa e modifica il paesaggio, ma poi che ne rimane di questo transito?

«Non sono affascinato dalla ricerca di quello che chiama “momento fugace”, mi appassiona di più immaginare molteplici possibilità; credo che il paesaggio si componga grazie alla frequentazione degli uomini e che lo sguardo possa essere un fattore concreto di modificazione quanto lo sono l’architettura o l’urbanistica. Alla ne rimane ciò che non vediamo: ancora altro tempo e altre persone che lo attraversano e se siamo interessati potremo osservarli.»

In passato ho notato che la gura umana è spesso citata ma non rappresentata direttamente. In questo caso si percepisce una specie di presenza fantasmatica, mi sbaglio?

«No, ha perfettamente ragione. L’uomo è elemento portante del mio lavoro e forse in questo momento particolare del nostro tempo la sua presenza sica è meno tangibile. Cerco – in ogni caso – di mantenere un rapporto diretto con la quotidianità, una ricerca sempre di tipo relazionale tanto i soggetti siano persone quanto luoghi.»

Nel secondo video il rapporto è con il luogo filtrato attraverso il valore affettivo. È connesso a qualcosa di preciso o funziona come metafora?

«Si tratta di un luogo a me molto caro; il video e le foto di Sono nato in casa si riferiscono alle rive del lago Trasimeno, dove vivo e dove ho trascorso buona parte della mia vita. Ci sono voluto andare documentando un momento della mia esperienza, e allo stesso tempo lo reputo una sorta di work in progress che non so ancora dove mi condurrà.»

Non pensa che possa essere un limite questa personalizzazione dell’opera? Il suo appartenere a un luogo specifico così provato?

«Una cosa particolare che ho riscontrato mostrando le foto ad amici cresciuti con me è stata che nessuno riconosce il luogo di cui racconto. Probabilmente le immagini che ho scelto nel mio percorso tramutano quel “luogo” per me preciso in tutti e nessun posto insieme.»

Quanto del suo vissuto personale mette nei lavori?

«La mia esperienza in fabbrica e il mio vissuto in generale influenzano il mio lavoro, credo sia naturale, e ritengo che gli stati d’animo penetrino nel lavoro di un artista inevitabilmente. Per quanto riguarda la personalizzazione dell’opera, ho sempre immaginato la fotografia come a un elemento che mi aiuta quasi a scomparire; il mio modo diretto di vedere è spersonalizzante, e inoltre la fotografia per sua natura si presenta come strumento che di onde il potere di rappresenta- zione a tutti, e questo mi affascina.»

Se porta l’esperienza di operaio nel lavoro di artista, cosa aggiunge quella di artista in quella di operaio?

«Posso occuparmi di arte poiché per vivere faccio l’operaio e posso rimanere otto ore della mia vita dentro una fabbrica perché nella mia testa c’è sempre un nuovo progetto artistico.»

Con questi due video esula dal rapporto con il linguaggio dell’impegno civile che ha connaturato molto il suo passato artistico, oppure ritiene che in definitiva ogni opera porti in sé un motivo etico?

«Anzi, proprio in questi due lavori più che in altri trovo un impegno etico ben preciso, forse meno esplicito ma spero arrivi al pubblico in tutta la sua forza.»

Quale dovrebbe essere questo senso?

«La difficoltà di ritrovarsi dentro il paesaggio e il desiderio di ritrovare un senso al nostro quotidiano vivere. Ricominciare a usare lo sguardo come elemento attivo e non come adorazione dell’inutilmente bello.»

Come riempie di senso la sua giornata?

«Abbraccio mia moglie, mio figlio, e leggo un buon libro quando non sono troppo stanco o quando non realizzo i miei progetti artistici.»

Lo sguardo e il bello: ciascuno potrebbe dire la sua. Vorrei capire per lei cosa è “bello utile” e che tipo di sguardo riserva alle cose.

«Come dicevo non sono interessato all’attimo fuggente, mi piace guardare le cose in maniera diretta senza contra azione; mi piace scoprire le cose banali che spesso lasciano indifferenti. Non mi appassiona attendere la luce giusta o i colori del tramonto, preferisco una cosa incontrata per caso che attira la mia curiosità perché la sento più autentica. É vero anche che sul concetto di bello ciascuno potrebbe dire la sua, tuttavia immagino le cose che guardo come nuove possibilità, la fotografia potrebbe essere un appunto, perciò i miei progetti vanno intesi come “archivi aperti a nuove possibilità”.»

Quando parla di “archivi aperti” intende anche a materiali non direttamente suoi?

«Si, assolutamente. Per Circoloquadro ho realizzato una parete con materiali della mia vita privata e artistica, in fondo le due cose sono la stessa: il passo successivo sarebbe coinvolgere altre persone, anche estranee. Ecco perché ritengo il lavoro per Circoloquadro l’inizio di qualcosa che a tutt’oggi sto solo immaginando, pur avendo già in passato operato con idee aperte, in via di definizione col passare del tempo.»

Cosa dovrebbe differenziare il suo lavoro da progetti simili avvenuti in passato, a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta?

«Spero di realizzare nuovi punti di vista. Il mio è un percorso che ha radici molto prima degli anni ‘70, vediamo che succede strada facendo.»

Quali sono le sue origini artistiche?

«Sono attratto dai primi esperimenti situazionisti dalla fotografia di Walker Evans o di Luigi Ghirri.»
Evans, me lo passi, è sociale nei temi ma poetico nelle modalità, Ghirri è pura poesia, a differenza sua non hanno questa forte attenzione per il sociale-politico.

«Loro certo restano avvinti alla poesia, e a loro mi accomuna la maniera di guardare le cose in forma diretta e franca.»

La concettualità e l’Arte povera hanno in qualche modo influito?

«Il mio lavoro è fuor di dubbio concettuale, l’Arte povera non mi ha mai affascinato.»

Prima parlavamo di archivio e di memoria, il suo studio lo immagino come un’accumulazione di oggetti, una sorta di grande magazzino delle occasioni perdute e ritrovate.

«Generalmente archivio tutto ciò che mi affascina come gli oggetti, oltre naturalmente a materiale video e fotografico, spesso le cose che raccolgo non sono in linea con il progetto che seguo al momento, altre volte invece sono andato a ripescare immagini o oggetti che erano lì da anni, questo mi piace. Talvolta mi ritrovo a frugare scoprendo vecchie cose che a quel punto si possono guardare con occhi nuovi.»

Allora mi immagino il caos.

«In verità sono disordinato, ma non quando si tratta di lavo- rare a un progetto artistico perché in tal caso divento molto pignolo. Oltretutto opero spesso fuori dallo studio, per cui – se non ci entra mio figlio – è tutto ben in ordine.»

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